domenica 4 settembre 2016

L'ARTE CAMALEONTICA DELLA MODA























L’arte è un concetto, anzi forse una peculiarità dell’uomo che va oltre la
logica, il business che ormai invece prevale su qualsiasi forma creativa. La
musica, la pittura, la moda hanno sempre più modificato il loro obbiettivo e la
vera motivazione che prima portava tutto il mondo creativo a un quasi
desiderio maniacale di comunicare attraverso l’immagine, dei concetti “altri” ,
al di sopra dalla mera manifestazione dell’oggetto finale, di qualsiasi natura
esso sia.
Un percorso di ricerca, di dire al mondo il proprio punto di vista e cercare
adepti, o forse semplicemente esternare il bisogno di far uscire fuori un
qualsivoglia pensiero.
Cronologicamente il cambiamento fa capolino con la necessità di fare
business, quando i creativi diventarono schiavi di dogmi popolari,che
rispecchiavano ciò che il mondo massificato si aspettava dall’arte in tutte le
sue espressioni.
La moda dal 2008 in poi non fu più una forma d’arte, ma seguiva i moti
ombrosi di una società superficiale. Ad un certo punto il mondo non voleva
più vestirsi di un “messaggio”, richiedeva la velocità, l’immediatezza di
trovare, comprare ciò che voleva senza soffermarsi su quello che quel
qualcosa potesse avere un significato altro, oltre ciò che banalmente appare.
La moda diventò apparenza, un segnale di appartenenza ad una, spesso,
fittizia, classe sociale, che richiede la riconoscibilità, il brand, sempre più
presente, cosicchè la vecchia guardia pian piano dovette sottostare alle
necessità dei nuovi ricchi, il sogno degli stilisti di comunicare la loro
concettualità dovette lasciare il posto alle esigenze della nuova società e così è
il presente.
Tutto da anni è cambiato, il giornalismo, la creatività stilistica,l’arte, adesso
hanno ceduto il posto all’economia, a quello che la gente vuole comprare, o
che vuole leggere sul web, semplice, che sia più immediato e alla portata di
tutti. Gli stilisti guardano ai bisogni dei paesi “B.R.I.C”(Brasile, Russia, India e
China) che muovono l’economia mondiale.
Ormai lontana la situazione in cui la moda detta legge, essa diventa schiava
del pubblico pagante, come la musica, l’arte e tutto ciò che offre il mondo
della “futile” rappresentazione.
Dimenticate ormai le genialità dei “Sei di Anversa” (Martin Margiela, Ann
Demeulemeester, Dries Van Noten, Walter Van Beirendonck, Josephus
Thimister e Dirk Bikkembergs) figli della severissima Accademia Reale delle
Belle Arti di Anversa, vicini agli stilisti giapponesi come Rei Kawakubo e Yohji
Yamamoto.
Oggi “per i più” e per chi non è del campo, sono sconosciuti e lontani dal
mondo “cool” del “vestire bene”.
C’è poco da meravigliarsi di questo, perchè i “compagni” del mondo dell’arte o
della musica vivono la stessa triste evoluzione o involuzione.
Quello che è vendibile ha sostituito ciò che era innovazione, dal quale si
estraeva il concetto e tutto il mondo intorno ne costruiva altrettante situazioni
innovative. La fotografia, per la moda, era il canale dove tutto questo
fermento trovava un modo di comunicare e si poteva studiare ogni creazione
traendone i più profondi concetti “dell’idea”.
La speranza non soccombe ancora, però, ne abbiamo la prova dal Made In
Italy, delle nuove generazioni, magari con modalità diverse, che riescono a
dar voce al loro pensiero.
Su questo Vogue resta un magazine attento e sensibile e con vari concorsi
cerca di dar voce a tutti quelli che vogliono dir qualcosa che sia la via di mezzo
tra concetto e utilità.
La moda in questi anni ha vissuto lo stesso percorso dei moti avvenuti
nell’arte ormai tempi addietro. Dushamp, Piero Manzoni e altri diedero
all’arte un’altra identità.
Diciamo che Caravaggio sta a Yves Saint Laurent, come Dushamp sta Philip
Plain?
Questo non è un manifesto che vuole nostalgicamente rivangare il passato,
ma ammette la trasformazione della creatività in una risoluzione
inevitabilmente più immediata e popolare.